A Catania, il 3, 4 e 5 febbraio la festa patronale in onore di Sant’Agata, fra le celebrazioni religiose più vissute al mondo
Non c’è racconto, non c’è frase, non c’è parola che possa descrivere i giorni più incredibili che una città possa vivere quando di mezzo c’è la propria storia. La città è quella di Catania, i giorni sono quelli di Sant’Agata, la patrona celebrata dal 3 al 5 febbraio di ogni anno, con una festa che ha poche similitudini nei cinque continenti. Bisogna scomodare la Settimana Santa di Siviglia, o il Corpus Cristi di Cuzco in Perù, per ritrovare celebrazioni religiose di uguale intensità emotiva.
Una festa che è l’essenza della città e che travalica il confine del “non”, accomunando credenti e quanti non sono avvezzi a frequentare riti e funzioni, che attendono febbraio irrimediabilmente contagiati da quel che è un marchio di appartenenza, così come l’Etna, madre e matrigna; o il liotru, l’elefante simbolo di questa terra; e la squadra di calcio che, mantenendo la sua serie A, interpreta la voglia di esserci.
A dare il segnale che la festa è ormai nell’aria è il cambio dei paramenti. Dismesso il rosso natalizio, sin dai primi giorni del nuovo anno le vetrine si vestono di verde patronale. Poi, pian piano, si consuma l’attesa fra riti consolidati e segnali sottili che la città sa interpretare. Le pasticcerie si tingono del verde delle olivette di pasta reale, il dolce che, più di ogni altro, rappresenta la festa. Ma non è il solo. Gli altri segni s’individuano nei negozietti di tessuti a ridosso del centro che espongono il sacco, l’abito tradizionale che i devoti, che qui si chiamano “cittadini”, indossano nei tre giorni di festa; nei libri con la foto del busto luccicante di monili della patrona esposti nelle vetrine delle librerie, nelle candele votive che si vendono agli angoli delle vie.
E quando le candelore, i cerei lignei che un tempo illuminavano il percorso delle processioni, iniziano a girar per i quartieri, Sant’Agata è già nella pelle dei catanesi. Un’attesa che monta e che, poi, esplode in quei tre giorni vibranti, quando la città riabbraccia la patrona la cui festa ne incarna passioni, gioie, speranze, inferno e gloria.
L’inizio il 3 febbraio in pompa magna con l’offerta della cera, il giorno in cui rivivono le settecentesche “Carrozze del Senato”, trainate dai cavalli bianchi, su cui siedono le autorità cittadine, che poi scendono in strada a sfidare l’umore del popolo, contrapposto alla stregua di guelfi e ghibellini.
Le notte del 4 febbraio i cittadini, con indosso i loro sacchi bianchi che odorano ancora di bucato, si presentano in cattedrale. Sgranano le ore al freddo attendendo l’apertura delle porte per essere lì, in prima fila, quando la “Santuzza” uscirà dalla “cammaredda”, il sacello in cui è riposta durante l’anno, attraversando il transetto per giungere sull’altare maggiore, in un tripudio di gente. Loro, lì, vorranno esserci, a incrociare per primi lo sguardo felice, come lo descrive qualcuno, di Agata che ritrova il suo popolo, e salutarla agitando il fazzoletto bianco con un grido che, al passare delle ore, sarà sempre più roco e più flebile: “Cittadini, evviva Sant’Agata”. Poi la processione sino all’alba seguente, con il fercolo d’argento che incede per i quartieri popolari dove la città vera s’incontra e ne attende pazientemente l’arrivo, mangiando il cibo di strada, i panini con la carne di cavallo, la salsiccia, il “sangeli” il sanguinaccio cotto nel budello di maiale.
Il 5 febbraio, giorno di Sant’Agata, il fercolo compie il giro del centro storico. Dai palazzetti di via Etnea se ne attende l’arrivo ai balconi aperti agli amici, sgranocchiando noccioline e pasteggiando rosoli. Sotto le luminarie passano le candelore che ondeggiano facendo tintinnare i pendoli, barocco in movimento nella città barocca. I devoti sciolgono loro i voti portando sulle spalle torce accese e gocciolanti di cera, che pesano quanto loro stessi pesano. Si fermano per le invocazioni che diventano un lamento, dolore vivo, di storie vere di vecchi e di bambini affidati a Sant’Agata.
Il fercolo lentissimo procede per via Etnea e raggiunge, una dopo l’altra, le piazze del centro. Al Borgo si torna indietro. Ma c’è ancora l’ultima fiammata: San Giuliano. Sono le candelore a risalire per prime il basolato lavico, sfidandosi nell’ultima gara di resistenza. Poi l’arrampicata tocca al fercolo, col sole a illuminare l’ultimo scampolo di festa. All’unisono i sacchi bianchi fluttuano per condurre la vara d’argento in cima a quello che un tempo era un cratere. In via Crociferi, perla barocca dell’Unesco, risuona il canto delle suore in un silenzio irreale.
L’ultimo tratto sino in cattedrale ancora di corsa. La città riprende il suo ritmo, con i suoi rumori di clacson ed il vociare dei venditori della pescheria. Sant’Agata rientra ondeggiando ancora fra la folla. Poi il commiato. I sacchi bianchi si disperdono lisi e sporchi di cera, con un ultimo sguardo alla cattedrale e l’indice portato alla bocca per soffiare un bacio a mo’ di saluto.
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